Affermare il diritto di un bambino a restare nella famiglia a cui è stato affidato, se nel frattempo è divenuto adottabile appare oggi ragionevole e umano. Ma non sempre è stato così. Ci sono bambini affidati ad altri, perché i loro genitori non sono in grado di provvedere a loro, per tanti motivi; la legge prevede che possano rientrare a casa se nel frattempo la famiglia di origine si è consolidata. Oppure, se si ritiene che non possa più vivere coi genitori naturali, viene dato in adozione. Niente di più facile, si penserà, che resti nella famiglia che lo ha accolto per anni e dove è cresciuto. Perché recidere anche questo legame e creare una “terza” famiglia? Un minore ha bisogno di sicurezza, e continuità negli affetti. Anche io ho presentato una proposta di legge in questo senso, molto semplice, che si affianca ad altre e che approviamo alla Camera: se ci sono le condizioni, può restare a casa sua, dai genitori affidatari, una volta divenuto adottabile.Finora non è stato così, per scoraggiare l’idea che si possa prendere in affidamento un bambino eludendo la legge che vuole che sia temporaneo. Questo approccio è stato importante e va mantenuto, ma non va ideologizzato. In realtà, gli affidatari sanno di rischiare una separazione se i genitori biologici si rivelano, dopo un periodo di tempo, di nuovo capaci di prendersene cura. Ma una volta che debba andare definitivamente in adozione, perché non a loro? E’ questo il senso anche della battaglia che hanno fatto in questi anni l’Anfaa e l’Associazione La Gabbianella. Scrive Carla Forcolin, che parla di una sorta del “diritto di prelazione” della coppia con cui il bambino vive: “L’affidamento non sarà l’anticamera dell’adozione, se i tribunali e i servizi sociali funzioneranno in modo corretto” e aggiunge a proposito del DDL in discussione al Senato “ Questo è il vero senso della legge: dare continuità di affetti a minori che rischiano di essere trattati come pacchi”.
Vi ricordate il caso Serena Cruz, la bambina filippina la cui adozione da parte di genitori piemontesi non era regolare. Fu tolta e data in adozione a un’altra famiglia. Ma aveva quasi 4 anni, e per lei erano loro i genitori. Natalia Ginzburg scrisse che, per proteggere gli altri bambini che avrebbero potuto essere danneggiati, si sacrificò Serena. Possibile non si trovi un modo di tutelare tutti i bambini senza far del male ad una? Perché uno per tutti?
La continuità affettiva è un criterio fondamentale per decidere in casi che si annunciano sempre più complicati, specie nelle situazioni di fecondazione eterologa e così via. La madre è colei che partorisce, dice la legge. Ma questa affermazione sta diventando sempre più ambigua. In tanti casi i bambini nascono da una madre ma vengono fatti crescere da un’altra coppia. E diventa sempre più difficile trovare il bandolo.
Nel caso dei gemelli dell’ospedale Pertini di Roma, le cui provette sono state scambiate, il giudice ha deciso che la “vera” madre sia quella che ha partorito i bambini, anche se dal punto di vista genetico sono biologicamente di un’altra coppia. In questo caso si è privilegiato il legame, la relazione, i 9 mesi passati con un bimbo (o due) in grembo e quindi si riconosce che il bene (o il male minore) del bambino sia di non interrompere questo vero cordone, fisico o affettivo che sia.
C’è il caso delle coppie che utilizzano madri surrogate all’estero, uno dei più grandi soprusi e sfruttamento che si può fare a una donna. In questo caso non si tiene conto del fatto che per 9 mesi quel bambino/a ha avuto una madre.
Il miglior interesse del minore è un concetto relativo. A seconda del contesto e della situazione può significare una cosa diversa. La continuità affettiva è un criterio guida che mi pare fondamentale se partiamo effettivamente dagli interessi dei più piccoli. Ci vuole sempre un adulto, un giudice che decida qual è in quel determinato caso l’interesse per quel bambino/a. Speriamo che questo adulto sia saggio.