Non è la mancanza di «orgoglio, onore e ambizione» che conduce alla povertà (secondo la famosa teoria di Joseph Townsend, autore di una influente Dissertation on the Poor Laws del 1786). È al contrario la povertà che ci condanna a una vita cognitivamente limitata, a usare il paraocchi per non distogliere la nostra attenzione dallo scopo primario della sopravvivenza materiale, trascurando ogni altro obiettivo di miglioramento. Questo l’assunto fondamentale che emerge da uno studio scientifico uscito su Science, che cambia la percezione diffusa per quel che riguarda la povertà e le strategie che si possono adottare per affrontarla, in quanto esclude categoricamente la visione per cui un individuo, per uscire dal disagio dovuto alla povertà, sarebbe stimolato a trovare soluzioni. Al contrario lo studio dimostra che, per poter avere a livello cognitivo uno spazio mentale adeguato da dedicare a progetti di lungo periodo, una persona non deve essere assillata dalla preoccupazione per la propria mera sussistenza. Questa spirale colpisce soprattutto i bambini che, secondo lo studio, sono le prime vittime di questo meccanismo in quanto diventano poi incapaci di pensare sul lungo periodo. Pertanto il primo obbiettivo degli interventi di contrasto alla povertà dev’essere togliere i bambini il più presto possibile dalla condizione di bisogno, per fare in modo che possano inserirsi molto velocemente nella società, mentre man mano che si accumulano svantaggi cognitivi diventa più difficile uscire dalla situazione di disagio.
Lo studio rappresenta un approccio interessante che smentisce chi vuole smantellare il welfare state con la scusa che le persone bisognose lo sono, in fondo, per loro carenze dimostrando invece che è la povertà a creare deficit anche cognitivi e invita a concentrare le risorse per sostenere soprattutto l’infanzia.