Tra pochi giorni il Ministero della Giustizia toglierà l’affidamento delle mense in 10 carceri italiane alle cooperative sociali. Circa 170 detenuti e circa 40 operatori (maestri cuochi, psicologi, educatori, personale civile in genere) perderanno il posto di lavoro. Difficile capire il perché di questa scelta. Ci saranno ragioni amministrative per porre fine a una sperimentazione che non è mai entrata a regime, ma bisognava affrontarli e risolverli.
Ho potuto sperimentare i pasti preparati dalla cooperativa che gestisce la mensa del carcere di Bollate, un esempio di lavoro molto utile, promossa da Lucia Castellano. Organizza da anni un catering anche all’esterno per feste, matrimoni, convegni. Cose buone, fatte con cura, lavoro che restituisce dignità e crea professionialità. Incomprensibile chiudere questa esperienza, che dà senso alla detenzione e recupera alla vita. La cooperativa è già un valore in se stessa, perché organizza, coordina, controlla e forma.
Tutte le misure che abbiamo approvato in Parlamento in questi mesi, dal contrasto al sovraffollamento alle riduzioni di pena, vanno nella direzione di considerare il carcere come un luogo dove capire gli errori e tornare ad essere cittadini. Io mi sono occupata in particolare della presenza degli educatori in carcere.
Le misure alternative sono indispensabili per non tenere i detenuti costretti all’inattività, in ozio, senza un futuro. Che società è quella che nega il lavoro a chi ne ha bisogno per riscattarsi? O si vuole che lavorino gratuitamente? In questi giorni autorevoli giornalisti, osservando che gli occupati sono troppo pochi, propongono di far lavorare tutti insegnando un mestiere anche a costo di non remunerarli. Se ne parli, purché l’alternativa non sia il nulla.